Nell'immaginario collettivo l'infanzia è legata allo svago, al divertimento e soprattutto al gioco. Nel corso dei secoli sono cambiati i mezzi e gli strumenti per giocare, ma la creatività e l'aspetto ludico sono rimasti intatti. Ci sono però dei giochi, che oggi purtroppo non si praticano più. Conservarli nella memoria significa mantenere viva una parte della nostra infanzia e consente di custodire per le generazioni future un ricco patrimonio: giocare è sempre stata un'ottima preparazione alla vita. È significativo che in dialetto il “giocare” si dica “le pazzià” e, di conseguenza, gli strumenti del gioco siano “pazziarèlle”: è come voler sottolineare la stravaganza, l'originalità dei gesti e delle parole dei bambini.
Nella tradizione popolare abruzzese si sono conservati i giochi ereditati dal passato, alcuni dei quali tramandati addirittura dal mondo romano: nel Museo Archeologico di Teramo sono esposte pedine di pietra normalmente usate nei giochi da tavolo; ad Amiternum, presso L'Aquila, alcune fossette scavate in una soglia testimoniano giochi semplici e divertenti quali quelli con le noci; un poppatoio di terracotta, in forma di galletto, che fungeva anche da sonaglino, è stato rinvenuto ad Ocriticum (Cansano - AQ) presso il deposito votivo del tempio italico. Spesso i sonagli, otre ad avere la funzione di gioco, fungevano anche da amuleti contro il malocchio. Dunque il gioco con le noci era molto diffuso: nel mondo romano si usava normalmente l'espressione “lasciare le noci” per indicare la fine dell'infanzia. In un poemetto, chiamato appunto “La Nux” (La noce), erroneamente attribuito ad Ovidio, si descrivono i giochi che con esse si potevano effettuare: uno dei più diffusi era quello detto “dei castelli”, nel quale uno dei ragazzi cercava di gettare la sua noce sopra un gruppetto di altre tre noci radunate per terra. Vinceva chi riusciva a lanciarla sopra il mucchietto senza scomporre le altre, venendo così a formare una piccola piramide detta il “castello”. Un altro gioco era quello della “fossetta”, anticamente chiamato “tropa”, gioco che consisteva nel centrare o la stretta bocca di un orcio o una buchetta scavata nel terreno o nella pietra dei lastricati. Lo studioso Paolo Toschi, in Pagine Abruzzesi si occupò delle tracce del culto della Dea Angizia in un gioco infantile chiamato appunto a”ngizie, praticato dai bambini di Ortucchio nella Marsica. Esso veniva fatto per avere una protezione per sé stessi e per i propri familiari contro il temporale. Nella tradizione dell’Abruzzo contadino presso le comunità agro-pastorali i giocattoli erano creazioni dei bambini: attrezzi semplici, costruiti con mezzi di fortuna, con materiali di scarto come coperchi, rocchetti di filo da cucito, cassette della frutta, manici di scopa, scatole di latta, cerchioni di biciclette, fili di ferro, corde, elastici, tappi e via dicendo. Giochi e relativi giocattoli, chiamati in modo diverso nei vari paesi d’Abruzzo, ma praticamente gli stessi nella forma e nella sostanza, che testimoniano l’abilità manuale e la creatività dei fanciulli delle passate generazioni. Spesso quei giocattoli erano miniaturizzazioni di oggetti tipici degli adulti: carriole, culle, fucili di legno, carretti, trenini e attrezzi da lavoro. Per divertirsi andavano bene anche aeroplanini, barchette, cavalli a dondolo, zufoli, girandole ad aria calda, fischietti con noccioli d'albicocca, bambole di pezza, fionde, cerbottane, carri con cuscinetti a sfera, fucili di legno, aquiloni con telai di canne, monopattini, carri armati semoventi e cannoncini. Gli anziani raccontano che un tempo i bambini custodivano gelosamente un contenitore, una scatola dei tesori dove tenevano le cose più disparate: sassi, foglie essiccate, conchiglie, pezzetti di stoffa e così via. Negli anni ‘50 alcuni giochi tradizionali erano ancora praticati dai numerosi gruppi di bambini e ragazzi che animavano le vie dei paesi, le piazze, i cortili e le aie. Poi, con il passare del tempo sono scomparsi quasi completamente e continuano a sopravvivere nella memoria dei più nostalgici.
I giochi del passato sono tanti, vediamone alcuni.
Il gioco “A 'ppìccicamure”, chiamato anche “accanduscià” (avvicinare, accostare) si svolgeva solitamente durante le feste patronali, quando per i ragazzi era più facile possedere piccole somme di denaro, sotto forma di spiccioli, da utilizzare nell'esecuzione di questo passatempo. Scelto un muro con un bel marciapiede davanti, i partecipanti si ponevano ad una certa distanza dalla parete verticale e tra un numero indefinito di ragazzi, si estraeva a sorte chi per primo doveva mettere a rischio la propria moneta; essa doveva essere lanciata in modo tale da mandarla il più vicino possibile al muro (“appiccicate a lu mure”). Il possessore della moneta caduta più vicina al muro poteva tentare di vincere tutte le monete in gioco: le raccoglieva tutte tenendole in una mano; le disponeva nello stesso verso; le poneva una sull'altra, a castelletto, e le teneva strette tra pollice ed indice. Prima di lanciarle abilmente da una certa altezza diceva “testa” o “croce”, indicando così il verso che le monete dovevano mostrare una volta cadute a terra e vincendo così tutte quelle che mostravano il verso precedentemente indicato. Le monete restanti rimanevano a disposizione degli altri giocatori, che tentavano a turno di impossessarsene nella stessa maniera.
Il Cocuzzaro (“cococciara”, “cucuzzare”, “cuzzele”) è un gioco di gruppo che prende il nome dalle zucche, dette in dialetto “cocòcce” o “cucuzze”. Si giocava fino allo sfinimento, senza che ci fosse un premio finale: uno dei partecipanti veniva nominato Cocuzzaro e tutti gli altri interpretavano le cucuzze, identificandosi con un numero. Una volta disposti in cerchio, il Cocuzzaro recitava una filastrocca nella quale citava un numero. II giocatore nominato doveva rispondere e chiamare a sua volta un altro numero; chi si fosse distratto avrebbe pagato pegno, consegnando un oggetto di sua proprietà e se voleva riaverlo, doveva fare ciò che il capo gioco gli ordinava, o direttamente, o attraverso il volere di un ragazzo prescelto che, bendato, valutava la penitenza da dare al proprietario dell’oggetto in pegno.
Un altro gioco è il “Santill” che prende il nome dal pezzo di mattone usato per giocare; questo veniva posto in posizione verticale con sopra delle monete: ogni giocatore con il suo pezzo di mattonella o coppo, la “sdazzall”, deve colpire il “santill” per vincere le monete cadute più vicine al suo pezzo di mattone.
Nel gioco dei “Bottoni”, antenato del gioco con le monetine, potevano però essere usati bottoni di ogni tipo, che erano oggetto di scambi tra bambine. Predisponendosi al gioco le ragazzine si disponevano in cerchio. La prima bambina poneva il bottone sull’unghia del pollice rivolta verso l’alto, tra la falangina e la falangetta del dito indice, pronto a scattare. Il pollice allo scatto liberava il bottone che cadendo mostrava una delle due facce. Se il bottone mostrava la faccia posteriore la seconda bambina diceva “péte” (ossia piede) e il bottone era suo, se mostrava la faccia anteriore diceva “cape” (ossia testa) ed il bottone restava in possesso della padrona. Al turno successivo toccava alla seconda bambina mettere a rischio il suo bottone giocando con la terza bambina e così di seguito, secondo le stesse modalità, fino a comprendere nel gioco tutte le partecipanti. Un diverso modo di giocare a bottoni era in uso a Pratola Peligna (AQ), dove i bottoni in dialetto venivano chiamati “lemelle”. Si usavano i bottoni con un bordo a rilievo, solitamente utilizzati per le giacche o pantaloni. Il bambino collocava il proprio bottone per terra e, dopo aver umettato il dito indice con la propria saliva, lo poneva sul bottone sollevandolo e girando velocemente la mano, tentava di ribaltarlo; riuscendovi ne restava in possesso, fallendo il bottone passava di proprietà del vicino compagno di gioco.
Il gioco della “Campana” è molto antico, sembra risalire addirittura ai Babilonesi. A Roma era noto come gioco del “clàudus” (gioco dello zoppo) ed era tra i più popolari e diffusi tra i bambini. Destinato alle femminucce, ma non disdegnato dai maschietti, veniva praticato principalmente all'aperto, ovunque si potesse disegnare per terra la campana, una serie di riquadri numerati e posti di seguito. La forma della campana, il numero dei riquadri e la loro disposizione variava da luogo a luogo: si poteva creare con sette riquadri disposti a croce latina; con cinque riquadri disposti in serie di cui l'ultimo suddiviso, per mezzo di diagonali, in quattro triangoli; con tre riquadri disposti in serie, di cui l'ultimo suddiviso in quattro triangoli e l'ultimo spazio numerato avente forma semicircolare. Si giocava in piccoli gruppi di tre o quattro bambine al massimo. Le giocatrici, dopo aver disegnato la campana con un gessetto, una pietra gessosa o un pezzetto di carboncino, si preparavano al gioco munendosi di una piastrella di coccio o una pietra piatta; la piastrella veniva gettata nel primo riquadro, dove si entrava saltellando su un piede; con lo stesso piede, girandosi, si doveva spingere la piastrella fuori dalla campana. La piastrella veniva poi, di volta in volta, lanciata nei successivi riquadri numerati seguendo le stesse modalità e ripercorrendo tutto il tragitto al contrario. La bambina che iniziava il gioco si arrestava in presenza di errori: se la piastrella non centrava il riquadro voluto o usciva sui lati del disegno e non sul davanti; se saltellando si finiva sul disegno della campana. L’abilità consisteva nel riuscire a fare tutto il percorso senza commettere errori e nel minor tempo possibile, segnando così un punto a proprio favore. Infatti chi riusciva a completare l'intero percorso dopo l'esecuzione di tutte le giocatrici, voltava le spalle alla campana e gettava la piastrella all'indietro tentando di centrare una casella. Se il tentativo riusciva, la giocatrice si impossessava della casella sbarrandola con una croce; da quel momento quel riquadro doveva essere saltato, nel corso del gioco, dalle altre partecipanti. Vinceva colei che riusciva ad impossessarsi del maggior numero di caselle. Si conoscono altre varianti come raccogliere la piastrella con la mano stando in equilibrio su una gamba invece di farla uscire colpendola con il piede; entrare contemporaneamente a gambe divaricate in due caselle affiancate; fare il percorso di uscita con gli occhi chiusi.
Nell'antichità decine di giochi, praticati dai fanciulli greci e romani, si avvalevano dell'uso della “Corda”, che richiede agilità e resistenza. Si può giocare da soli, saltando a piedi uniti la corda che, tenuta a due mani per ciascuna estremità, viene fatta roteare intorno al corpo, partendo da dietro. Imprimendo il movimento rotatorio dal basso verso l'alto, la corda passa sopra la testa e, in direzione dei piedi, per evitare di inciampare, il giocatore deve fare un salto. Si può saltare alternando l’uno o l’altro piede; saltare su un piede solo, tenendo sollevata l'altra gamba. Per rendere più difficile il gioco si possono fare salti a piedi incrociati, tenendo gli occhi chiusi o giocando in coppia. Naturalmente vince chi riesce a saltare più a lungo senza interruzioni. Nel gioco di gruppo la corda è più lunga ed è tenuta da due bambine che, sincronizzate, imprimono il movimento rotatorio dal basso verso l'alto mentre scandiscono con una cantilena i nomi di vari frutti (es. arancia, limone, mandarino, mela, ecc.). Ogni fanciulla infatti prende un nome convenzionale ispirato ad un particolare frutto. Le concorrenti devono scavalcare la corda a piedi uniti mentre viene recitata la cantilena; sbagliare significa bloccare il movimento della corda, in tal caso il gioco viene fermato e subentra la bambina che porta il nome convenzionale pronunciato in quel momento; si può ripetere per due volte il gioco, senza passare la mano, se esso viene interrotto al nome del frutto corrispondente alla bambina che sta giocando.
Il Cucco è una versione molto rudimentale della briscola, questo gioco tipicamente natalizio nasce in provincia di Teramo. Detto anche “Cucù” o “Stu”, una volta era diffuso in gran parte d'Italia e d'Europa. Per iniziare occorre un mazzo di 40 carte speciali con 20 valori diversi: due serie identiche di 20 carte, quindi. Ogni gruppo è composto da una serie di 10 carte numerali, contrassegnate dai numeri romani da I a X e due raggruppamenti di figure. Il primo rappresenta i valori positivi con i numeri dall’XI al XV, mentre il secondo, dal XVI al XX, quelli negativi. La partita inizia con i giocatori “vergini” ognuno con 3 gettoni. Il mazziere mescola il mazzo e dà una carta a tutti i partecipanti restando in attesa; il giocatore esamina la carta ricevuta e decide di “stare” se intende tenerla o “passare” se vuole liberarsene. Nel primo caso il turno passa al giocatore successivo e così via. In situazione di “passo” il successivo è costretto ad accettare la carta del passante, a meno che non abbia un “trionfo” ossia una carta con valore dall’XI al XV. Terminato il primo giro i giocatori scoprono le carte e chi ha il valore più basso paga uno dei suoi gettoni. Chi perde tutti i gettoni è eliminato. Fino a quando c’è un “vergine” vi è la possibilità per gli eliminati di rientrare in gioco. Il gioco rispecchia la vita: una tavolata di giocatori (una società umana); a ognuno una carta (una sorte); a ognuno una possibilità di cambiarla (di mutar destino); ma ognuno è bloccato dinanzi a un trionfo (è sconfitto dai potenti); si scoprono le carte e la più bassa (il capro espiatorio) paga per tutti.
I ragazzi del Quadrifoglio